Non so se ve lo ricordate ma qualche mese fa avevo iniziato un percorso editoriale ben preciso dove i protagonisti erano moda e ambiente. Avevamo visto come ognuno di noi sia spinto dall’irrefrenabile voglia di comprare e di come su questa nostra debolezza si siano eretti i più grandi colossi di Fast Fashion del momento, tra cui: Zara, H&M, SheIn, Temu, Aliexpress e chi più ne ha più ne metta.
Quasi come una droga, tu ti ritrovi lì sull’app, con il carrello pieno di cazzate, solo perché costano poco quindi “pure se le metto solo una volta che fa!?”. Su queste nostre scelte superficiali si basa il concetto di mercato a basso costo che, per quanto possa sembrare allettante, nasconde dietro di sé uno scenario ben peggiore di quanto si immagini e si sappia.
Moda e ambiente: urge un percorso di “responsabilizzazione”
Il mio compito in quanto amante della moda, ma ancor di più del Pianeta che ci ospita, è quello di usare questo blog moda sostenibile per informarvi di quanto accade. Sarete sempre liberi di continuare a effettuare le vostre scelte di consumo ma almeno non in maniera totalmente inconsapevole.
Nel secondo capitolo di questo percorso che mi piace definire di “responsabilizzazione“, parlo appunto di consapevolezza ecologica così che, per esempio, quando assistiamo impotenti alla notizia dell’alluvione a Valencia o della neve che per la prima volta da 130 anni non ha ricoperto il Monte Fuji ad ottobre, non cadiamo completamente dalle nuvole.
Nel terzo capitolo introducevo il discorso di “ecocidio” soffermandomi particolarmente sui danni ambientali che scaturiscono dalle industrie del settore tessile. Tramite la docu-serie raccontata dal giornalista Matteo Ward, siamo partiti dal cimitero del Cile, dove arrivano a muoiono tutti i nostri resi; abbiamo fatto sosta in Ghana, dove sono costretti ad importare gli scarti dell’occidente sotto ricatto di un’America che li tiene in pugno tramite l’Agoa, patto di commercio internazionale dove per ora è inclusa anche l’Africa orientale.
E poi è stato il turno dell’Indonesia, uno dei tanti paesi le cui terre vengono sfruttate e violentate per usi e necessità dei paesi industrializzati d’occidente.
Se pensate che sia finita qui vi sbagliate, a questo già avvilente scenario vi dimostro come l’inquinamento tessile si possa insidiare in modi e forme differenti.
Il lato oscuro della moda: come stiamo favorendo l’ecocidio più grande della storia?
Consumismo e moda: siamo davvero liberi di scegliere? In tre paragrafi vi dimostro come con le nostre scelte di consumo siamo complici di un sistema malato.
3. Le condizioni di lavoro peggiori al mondo (Bangladesh)
Il crollo del Rana Plaza in Bangladesh del 24 aprile 2013, dove persero la vita 1135 operaie tessili e ne rimasero ferite in 2438, ha squarciato il velo sul lato oscuro del fast fashion. Questo paese, secondo produttore mondiale di abbigliamento dopo la Cina, è ancora oggi teatro di sfruttamento e violazioni dei diritti umani.
Le lavoratrici tessili, per lo più donne, sono sottopagate, costrette a turni massacranti di 400 ore al mese di lavoro (quasi ininterrotto) in condizioni disumane: in ambienti insicuri, senza alcuna tutela. Minacciate e private di ogni diritto, guadagnano appena 70€ a mese, una cifra insufficiente per vivere dignitosamente. Talvolta costrette anche a lasciare le proprie abitazioni, queste stesse donne praticamente si ritrovano intrappolate in un sistema di sfruttamento che le aliena e le priva di ogni dignità.
Ma il costo del fast fashion va ben oltre lo sfruttamento. L’industria tessile inquina le falde acquifere con sostanze chimiche e metalli pesanti, compromettendo l’agricoltura e la salute della popolazione. Un esempio è la lavorazione del cuoio a Dacca, dove i lavoratori sono esposti a sostanze chimiche tossiche senza alcuna protezione.
Le aziende, pur disponendo di filtri per depurare le acque, preferiscono massimizzare i profitti a discapito dell’ambiente e delle comunità locali. Così che scarichi industriali non trattati avvelenano i fiumi mettendo a rischio, non solo la salute di chi vive lungo le sue sponde ma l’intero ecosistema.
Ma possiamo fare la differenza. Consumare meno e scegliere marchi etici è il primo passo. Firmare la petizione “Good Clothes Fair Pay” è il secondo e può contribuire a spingere l’Unione Europea ad agire per per garantire condizioni di lavoro eque e una produzione sostenibile. È tempo di chiedersi: quanto vale davvero il nostro guardaroba?
4. Debiti e suicidi tra infestanti e pesticidi (India)
Dietro la morbidezza del cotone che indossiamo si nasconde una realtà drammatica. In India, la culla della produzione tessile di cotone, l’uso massiccio di pesticidi e la diffusione del cotone geneticamente modificato hanno trasformato la coltivazione in una vera e propria roulette russa per i contadini.
L’introduzione del bt cotton, promesso come la soluzione a tutti i problemi, si è rivelata una trappola mortale. I semi, costosi e non riutilizzabili, hanno indebitato milioni di agricoltori, costringendoli a un ciclo di dipendenza dalle multinazionali. L’esposizione ai pesticidi ha provocato un aumento esponenziale dei suicidi e di gravi malattie, trasformando intere comunità in vittime di un sistema produttivo malato.
Nemmeno la fase di lavorazione del cotone è esente da rischi. Nelle città come Panipat, dove il cotone viene trasformato in tessuto, i lavoratori sono sottoposti a condizioni lavorative disumane e a un’esposizione costante a sostanze chimiche pericolose. L’inquinamento delle acque e dell’ambiente è un problema endemico, con conseguenze devastanti sulla salute delle persone e sull’ecosistema.
Il cosiddetto “filato sostenibile” ottenuto dal riciclaggio di vecchi abiti non è altro che un’illusione. Anche in questo caso, i lavoratori sono esposti a rischi per la salute e l’ambiente viene ulteriormente inquinato.
È urgente un cambiamento radicale nel modo in cui produciamo e consumiamo il cotone. Dobbiamo sostenere pratiche agricole sostenibili, ridurre l’uso di pesticidi e garantire condizioni di lavoro dignitose per tutti i lavoratori della filiera tessile. Solo così potremo indossare abiti senza sentirci complici di un sistema che avvelena le persone e il pianeta.
5. Il male silente e insidioso dei Pfas (Italia)
E poi ci sono loro, i maledetti Pfas. Chiamati anche «inquinanti eterni» o «sostanze chimiche permanenti», sono ad oggi un forte motivo di preoccupazione per la nostra salute (meglio tardi che mai!). Matteo Ward ne parla recandosi in Veneto e mettendo in luce una problematica che, ahimè, abbiamo proprio sotto casa. In questo caso non si tratta di qualcosa che vediamo in TV e che quindi è come se non accadesse davvero: quello dei Pfas è un problema reale e rischiamo di esserne già contaminati tutti.
In un articolo mi sono dedicata già abbondantemente a questa tematica, su ispirazione proprio della docu-serie di Ward. All’interno dell’ultima puntata di Junk, infatti, le protagoniste sono donne infuriate e determinate che, vivendo sulla loro pelle gli effetti dell’inquinamento da Pfas, vogliono alzare la voce, pretendendo che si senta!
Sto parlando di donne che si sono dovute interfacciare con tumori maligni sia in prima persona che verso i loro cari e che alla fine hanno scoperto risalisse tutto all’acqua che utilizzavano… Sto parlando dell’acqua, una delle cose di cui abbiamo più bisogno durante la giornata: dal lavare i denti, all’acqua per la pasta; dalla doccia, a quel bicchiere da bere che a volte riempiamo dal rubinetto. Quante volte ci capita di entrarne in contatto nella maniera più spontanea possibile?
Un acqua che silente contiene al suo interno miliardi di nanoparticelle di Pfas capaci di insidiarsi nel nostro organismo, accumularsi e restarci per sempre. Pfas legati a danni al fegato, a malattie della tiroide, all’obesità, a problemi di fertilità e, appunto, al cancro.
Come se non bastasse, i Pfas sono ovunque, anche sugli utensili di casa antiaderenti che utilizziamo per cucinare; anche nelle giacche impermeabili che indossiamo per non bagnarci. Un vero e proprio nemico invisibile che deriva indovinate un po’ da dove? Dagli scarichi industriali delle aziende che li producono o utilizzano.
E noi cosa possiamo fare?
Insomma, in base a questo scenario pare non ci sia scampo: per quanto riguarda il connubio “moda e ambiente” siamo davvero sotto attacco! Per proteggere l’ambiente, e quindi, tutelare anche la nostra salute, l’unica cosa in nostro potere è invertire il senso di marcia cercando di dare il nostro piccolo contributo.
Ricordiamoci che ogni nostra scelta, dal capo che indossiamo al cibo che consumiamo, ha un impatto sul mondo. È fondamentale essere consapevoli dell’impronta che lasciamo sull’ambiente, adottando stili di vita responsabili per proteggere la nostra salute e quella delle generazioni future. Le nostre scelte contano.
Quello che facciamo è solo una goccia nell'oceano, ma l'oceano senza quella goccia sarebbe più piccolo.
(Madre Teresa di Calcutta)